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Vertice NATO, Difesa e Trump: scenari futuri dopo il summit dell’Aja

vertice Nato

Lo scorso 25 giugno si è concluso il vertice NATO dell’Aja, nei Paesi Bassi, sotto l’egida del neo eletto segretario Mark Rutte, i cui sviluppi hanno suscitato grande clamore mediatico a causa delle decisioni politiche che ne sono emerse.

NATO e spesa militare: l’obiettivo del 5% del PIL

Tra i principali punti di attenzione, il tema dell’incremento delle spese militari dei paesi membri dell’Alleanza è stato senza dubbio il più importante. Sotto spinta americana e del Presidente Donald Trump, infatti, i 32 firmatari del Patto Atlantico hanno acconsentito, seppur con qualche riserva ed eccezione, ad incrementare le proprie spese militari fino al 5% del proprio Prodotto Interno Lordo entro il 2035.

Un record rispetto al trend degli ultimi anni, in cui poco più della maggioranza di essi era riuscita, con grandi sforzi, a raggiungere il precedente vincolo del 2% del Pil. Tale obbiettivo, nel caso dell’Italia, era stato accettato dal presidente Renzi nel 2014, durante il vertice di Newport in Galles, e stabilito come obbiettivo da raggiungere entro il 2028.

Le resistenze europee e le tensioni transatlantiche

L’innalzamento della soglia al 5% del Pil, invece, si presenta come il frutto di un compromesso tra le pressioni americane, coadiuvate dai paesi Baltici e Scandinavi, e le resistenze dell’Europa occidentale, tra cui Germania, Italia e Belgio, ma con in primis la Spagna, la quale ha spinto per ottenere una clausola di opt-out pari alla soglia del 2% del Pil stabilita ex-ante.

L’ostilità di Donald Trump verso tale intenzione non è tardata a manifestarsi: il presidente americano, infatti, ha subito dichiarato di voler raddoppiare i dazi USA nei confronti del paese iberico come misura di rappresaglia, atto che il presidente spagnolo Sanchez ha definito illecito, in quanto scorporerebbe la politica commerciale spagnola da quella comunitaria, essendo l’Unione Europea l’organo direttamente competente in materia in base ai trattati.

Spese militari e innovazione: cosa prevede il piano NATO

Tuttavia, in base a quanto stabilito nel vertice, è opportuno specificare che solo il 3,5% del Pil dovrà essere destinato a spese puramente militari, in quanto il restante 1,5% potrà essere investito in spese collaterali, legate ad esempio al potenziamento della propria rete infrastrutturale, al comparto della cybersicurezza e all’Innovazione tecnologica.

Inoltre, il documento finale sottoscritto dalla maggioranza dei membri stabilisce la possibilità di rivedere tali vincoli già dal 2029, paventandone dunque anche un’eventuale revisione al ribasso. Data non casuale, in quanto immediatamente successiva alla scadenza del mandato dell’attuale inquilino della Casa Bianca e principale latore dell’istanza di incremento dell’impegno economico degli altri Stati.

Il costo per l’Italia: 70 miliardi in più?

Ad ogni modo, nel caso dell’Italia, se si volesse tenere conto del vincolo del 5% del Pil e procedendo ad un semplice calcolo numerico, ai ritmi di crescita attuali, ciò significherebbe un incremento della spesa pubblica di circa 70 miliardi di euro l’anno.

Nel 2024, infatti, i dati ufficiali confermano un impegno militare italiano pari all’1,5% del proprio Pil, pari a 32 miliardi di euro.

Se si volesse considerare il target del 3,5%, invece, scevro quindi da investimenti diversi da quelli in armamenti, allora l’impegno economico aggiuntivo annuo scenderebbe a 42 miliardi, sempre calcolando il Pil italiano attuale.

Cifre considerevoli dunque, sostenibili solo attraverso tre modalità:

incremento del debito pubblico, ipotesi comunque soggetta alla validazione delle autorità politiche e finanziarie dell’Unione Europea in quanto violazione del Patto di Stabilità; incremento della tassazione, anche se non è chiaro però verso quali soggetti sarebbe diretto (l’attuale governo ha più volte dichiarato che i prossimi interventi di alleggerimento fiscale riguarderanno la classe media); taglio della spesa, andando però a rimpicciolire ulteriormente uno stato sociale già in sofferenza.

Quest’ultima ipotesi, infatti, andrebbe a scontrarsi con la contrarietà di un’opinione pubblica già sensibile al deperimento del welfare, riscontrandone da tempo gravi carenze, in primis nei settori dell’Istruzione e della Sanità.

Un concreto rischio di collisione, dunque, fra l’attuale governo italiano e l’elettorato, in grado persino di riaprire una partita politica per la quale fino a poco tempo fa non sembravano esservi alternative praticabili nel breve termine.

Ciò che è possibile ipotizzare, dunque, è che la maggior parte dei paesi contrari al raggiungimento di tale soglia, anche se firmatari del documento finale che la ufficializza, attenderanno il 2029 prima di apportare dei cambiamenti significativi al budget per la difesa, nella speranza che il futuro presidente americano sia propenso a politiche più caute in tema di armamenti.

Medio Oriente e Ucraina: nuove priorità nella politica USA

Il capitolo dell’incremento delle spese per la difesa è stato sicuramente caratterizzato dai recenti avvenimenti bellici in Medio Oriente, dal prosieguo del conflitto in Ucraina, così come dalla necessità del sostegno alleato verso Washington nell’Indo-Pacifico.

Per quanto concerne il teatro mediorientale, il presidente americano ha rivendicato i recenti bombardamenti dell’aviazione di Washington miranti alla distruzione delle infrastrutture di Teheran dedicate allo sviluppo di armi nucleari, sottolineando che tale attività non sarebbe stata possibile senza l’intervento militare americano, sebbene la reale entità dei danni e l’effettivo annientamento del programma nucleare iraniano siano ancora oggetto di discussione pubblica.

In merito alla questione ucraina, invece, nonostante la Russia sia stata definita a valle del summit la principale minaccia strategica dell’Alleanza, la possibilità dell’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica non è stata affatto citata negli atti (nonostante Rutte insista sul fatto che Kiev si trovi su un percorso irreversibile di adesione) così come la presenza del presidente Zelensky, la cui partecipazione al vertice è stata limitata ad incontri bilaterali, tra cui quello con Donald Trump, senza che fosse però incluso nell’assemblea plenaria.

I pochi elementi emersi relativi a Kiev si limitano alla possibilità di includere nel 5% della spesa per la difesa dei membri il sostegno militare ad essa destinato, l’impegno di fornirle 35 miliardi di euro di aiuti per il 2025 e la possibilità di fornitura di sistemi di difesa aerea Patriot da parte di USA, Germania e Paesi Bassi, senza però formalizzare garanzie né date certe di consegna.

Ad ogni modo, il ridimensionamento della questione ucraina, al centro dei vertici Nato degli ultimi tre anni, è divenuto evidente e foriero di speculazioni su di un suo prossimo congelamento. L’impegno militare americano nei confronti dell’Ucraina, inoltre, non pare più garantito, una volta terminate le forniture militari già stabilite dalla precedente amministrazione di Joe Biden.

Indo-Pacifico: il nuovo fronte della NATO?

Parallelamente, è stato ribadito il sostegno dell’Alleanza nei confronti degli alleati nell’Indo-Pacifico, teatro ritenuto sempre più prioritario da Washington e probabile area primaria di conflitto diretto con Pechino, nonostante il vertice sia stato disertato dai tre più importanti capi di governo alleati dell’area invitati (Giappone, Corea del Sud e Australia). E’ proprio qui, infatti, che gli Stati Uniti intendono concentrare i propri sforzi militari, da troppo tempo distratti dagli impegni in Europa e Medio Oriente, non escludendo inoltre la richiesta di un eventuale intervento militare europeo a supporto nell’area.

Un supporto pertinente ad un dominio diverso da quello della guerra in Ucraina, passando da quello prettamente tellurico ad un dominio espressamente marittimo, chiamando allo sforzo gli alleati con le marine militari più sviluppate e performanti, come ad esempio Regno Unito, Italia, Francia e Germania. Motivo per cui, se le pressioni americane per il rispetto del vincolo di spesa diverranno insostenibili, sarebbe saggio, da parte italiana, destinare tali risorse quasi esclusivamente al potenziamento della propria Marina militare.

Ipotesi valida assumendo che i membri europei della Nato intendano davvero seguire gli USA, e soprattutto il loro nuovo presidente, in Estremo Oriente.

Non è affatto da sottovalutare, infatti, la possibilità che in risposta al minacciato disimpegno americano in Europa i membri europei dell’alleanza possano reagire lasciando sola Washington contro Pechino.

Nel passato recente è già avvenuto che alcuni tra i più importanti paesi Nato negassero il proprio supporto all’intervento americano in campagne militari chiave, o almeno allora considerate tali. Nel 2003, infatti, Francia e Germania, seppur già al seguito di Washington in Afghanistan, decisero di disertare la guerra in Iraq contro Saddam Hussein, seguite l’anno dopo dalla Spagna, che si ritirò appena un anno dopo l’invasione del paese e dopo aver subito i tristemente noti attentati di Madrid.

Ad ogni modo, la volontà di concentrare le proprie forze nell’Indo-Pacifico rende ancora più probabile il ritiro graduale di parte delle truppe americane oggi di stanza nel Vecchio Continente, almeno fino ai numeri precedenti il 2022.

Questione di fondamentale importanza, che riafferma l’importanza della presenza militare americana in Europa come forma di deterrenza imprescindibile. Deterrenza che il presidente americano sembra assai determinato a collegarvi il relativo impegno economico, se si considera che ha più volte affermato che gli USA non interverrebbero in difesa dei paesi “morosi” qualora dovessero essere attaccati, o peggio, invasi.

Tuttavia, nonostante la retorica, è bene sottolineare come durante il primo mandato di Trump l’impegno americano in Europa sia aumentato anziché diminuire: dai 61.000 soldati nel 2016 si è passati ad un incremento di duemila unità nel 2021, forse giustificato dall’annessione russa della Crimea, allora da poco avvenuta.

A tale incremento, però, il presidente Trump, alla fine del proprio mandato nel 2020 e con le tensioni con la Russia apparentemente raffreddate, fece seguito con l’ordine di ritirare 9.500 soldati dalla Germania, come punizione verso Berlino per non aver rispettato il vincolo del 2% del Pil. Decisione attuata solo in minima parte, con il ritiro di 500 soldati, e annullata di lì a poco dal presidente Biden, appena subentrato.

Ad ogni modo, Washington pone tanta enfasi sulla necessità di un potenziamento dell’industria militare europea e sull’incremento della capacità dei membri europei dell’Alleanza di assumersi sempre più responsabilità nelle questioni che li riguardano direttamente.

Di fatto, il vertice Nato dell’Aja ha segnato l’inizio di uno spostamento degli oneri economici dell’alleanza dagli Stati Uniti d’America all’Europa, o almeno nel sancirne l’intenzione americana, incarnata perfettamente dalla volontà politica del presidente americano Donald Trump.

Occorre però portare all’attenzione un’ultima considerazione: per gli europei destinare il 5% del Pil in spese per la difesa significa comprare principalmente armi made in USA.

EDIP: la risposta dell’Unione Europea all’egemonia americana

Nel quadriennio 2019-2023, infatti, l’istituto Sipri ha segnalato che il mercato europeo degli armamenti ha rappresentato il 55% dell’export americano, con un incremento del 94% rispetto ai quattro anni precedenti in cui valeva ben venti punti in meno.

Tali dati lascerebbero ipotizzare che che a corollario di una scelta strategica senza precedenti come quella delle spese militari stabilite nel vertice Nato dell’Aja, ne pervengano altre di natura commerciale, se non elettorale.

Anche per contrastare logiche di questo genere, l’Unione Europea ha dato prova lo scorso anno di una prima risposta con lo European Defence Industrial Programme (EDIP), un’iniziativa chiave per rafforzare la capacità produttiva dell’industria bellica europea.

Il programma prevede un finanziamento tra gli 1,5 e i 3 miliardi di euro per il periodo transitorio 2025-2027, in attesa dell’inserimento stabile nel Quadro Finanziario Pluriennale post-2027, dove potrebbe raggiungere oltre 10 miliardi di euro in sette anni. Oggi, oltre il 70% degli acquisti militari degli Stati membri proviene da paesi extra-UE, in particolare proprio dagli Stati Uniti. L’EDIP punta a invertire questa tendenza, finanziando progetti industriali congiunti, aumentando la produzione interna di munizioni e sistemi d’arma e promuovendo consorzi europei per le grandi commesse strategiche.

Seppur stanziando cifre ancora irrisorie, considerato quanto invece speso dai paesi membri singolarmente, l’EDIP costituisce una forma embrionale di ciò che potrebbe prospettarsi come una difesa europea integrata ed industrialmente autosufficiente, in questo rispondente agli attuali e cari (letteralemente) desiderata di Washington, chissà che non lo sia, forse anche troppo, nel prossimo futuro.

Francesco Iasevoli, Geopolitical Studies & Advocacy Analyst