Il secondo mandato di Donald Trump segna la fine simbolica dell’epoca della centralità europea nel sistema internazionale. Centralità persa progressivamente dopo la Seconda Guerra mondiale, ancor di più dopo la fine della Guerra fredda, oggi essa sembra svanire quasi del tutto.
Dopo cinque secoli in cui il Vecchio Continente è stato il cuore del potere mondiale – prima come centro coloniale, poi come epicentro della Guerra fredda e infine come provincia avanzata e prestigiosa dell’impero americano – il XXI secolo avanza ormai oltre l’orizzonte europeo. Gli Stati Uniti, tornati a un paradigma di potenza imperiale pragmatica, guardano verso Sud e verso Est, relegando le capitali europee ai margini delle nuove dinamiche globali.
Nella Casa Bianca del Trump II, la priorità non è più il mantenimento dell’ordine liberale fondato dopo il 1945, ma la ricostruzione della potenza americana secondo criteri di interesse economico e militare diretto. Washington si allontana dal vecchio legame transatlantico, giudicato oneroso e poco utile a contenere la nuova sfida storica: la Cina. Un legame da riconfigurare. Il confronto con Pechino, rimesso al centro dell’agenda, non è più puramente commerciale ma anche tecnologico e strategico. La Casa Bianca punta a contenere l’espansione industriale cinese rafforzando un nuovo triangolo nel Pacifico – Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud – orientato all’autonomia produttiva e alla supremazia nell’innovazione. Le tensioni sui semiconduttori, sull’intelligenza artificiale e sulle rotte marittime del Mar Cinese Meridionale costituiscono il campo di battaglia del futuro.
La diplomazia americana si struttura intorno a un principio di concentrazione: controllo delle risorse, tutela della sicurezza delle rotte e riduzione delle vulnerabilità interne. In questa prospettiva, il Sudamerica ritorna rilevante come spazio d’influenza naturale e come riserva di approvvigionamento di idrocarburi e terre rare. Brasile, Argentina e Venezuela diventano oggetto di una competizione neo-monroeista, in cui Washington cerca di ristabilire la propria supremazia economica contro la penetrazione cinese. La strategia non prevede solo pressioni politiche, ma anche investimenti diretti in infrastrutture energetiche e partenariati sul litio e sul rame, indispensabili per le catene di approvvigionamento delle tecnologie verdi. Il messaggio è chiaro: l’America Latina deve tornare a orbitare intorno a Washington, non a Pechino.
Parallelamente, l’interesse verso l’Artico e la Groenlandia indica l’emergere di una geografia economica nuova. L’attenzione presidenziale alla “porta polare” non è un vezzo geopolitico, ma la proiezione di una logica di risorse e rotte. La fusione dei ghiacci, la presenza di materiali rari e le nuove vie marittime verso l’Asia offrono agli Stati Uniti un’ulteriore frontiera strategica, utile a bilanciare l’espansione russa nella regione e a costruire un mercato energetico alternativo controllato da aziende americane. La Groenlandia, nel calcolo trumpiano, diventa simbolo di un neo-mercantilismo globale: possedere la terra significa comandare flussi e rotte.
Su questo sfondo, l’Europa appare sempre più periferica. Divisa, lenta, priva di un’autonoma cultura strategica, il continente scivola in un ruolo residuale tra Washington e Pechino. La NATO, pur formalmente intatta, si trasforma in un meccanismo bilaterale dove ogni Stato europeo deve dimostrare la propria utilità militare per restare nel radar americano. La politica di difesa comune europea, pur evocata a Bruxelles, non decolla: troppo fragile l’architettura istituzionale, troppo disomogenei gli interessi nazionali. Francia e Germania non riescono a offrire una leadership credibile, e il blocco orientale, dominato dalla paura della Russia, continua o a guardare agli Stati Uniti come unico garante di sicurezza, leggasi Polonia, o a comportarsi come corpo attratto da Mosca, vedasi Ungheria, Repubblica Slovacca e Repubblica Ceca.
Il risultato è un mondo che archivia il vecchio ordine atlantico e inaugura un equilibrio multipolare imperfetto. Il centro di gravità si sposta verso il Pacifico, mentre l’Occidente, nella sua configurazione tradizionale, si disarticola in tre sottosistemi: un’America egemone sull’emisfero occidentale, un’Asia guidata dall’interazione conflittuale tra Cina e Stati Uniti, e un’Europa ridotta a terreno di conquista tra blocco sino-russo e blocco atlantico. Questa marginalità non deriva solo da debolezza militare, ma da un deficit di strategia. L’Europa ha costruito la propria identità su valori postbellici di cooperazione e diritto, mentre la nuova competizione mondiale si fonda su potenza, produzione e sicurezza.
Trump, nel suo pragmatismo brutale, ha colto questa trasformazione meglio di molti leader europei. La sua politica non risponde a ideali messianici, ma a una logica di funzionalità: ciò che non serve all’interesse americano è secondario. In questa gerarchia dei valori, l’Europa non occupa più il posto della “sorella strategica”, ma quello di un alleato di convenienza, utile solo se contribuisce agli obiettivi materiali degli Stati Uniti. La storica alleanza viene sostituita da un rapporto selettivo, che premia il sostegno militare ma ignora le aspirazioni politiche. È l’incarnazione di un nuovo realismo americano, disinteressato alla stabilità globale come valore in sé.
Nel mondo post europeo, la storia torna a essere competizione di potenze imperiali, con confini cangianti e influenza che si dispiega nei grandi spazi. La fase della governance multilaterale, fondata sul compromesso e sul diritto, qualora sia mai esistita, oggi si dissolve completamente in una nuova logica fatta di aree d’influenza e sicurezza economica. Gli Stati Uniti difendono il proprio spazio vitale, la Cina espande il suo, la Russia consolida quello residuo, e l’Europa, incapace di definire il proprio, rischia di diventare il grande terreno neutro della contesa. La transizione è aperta, ma il segno dei tempi è chiaro: il centro del mondo si è spostato altrove.
L'editoriale del Prof. Lorenzo Castellani, Tenure Track Researcher Assistant Professor LUISS Guido Carli and Political Analys