L’Italia è la seconda potenza manifatturiera d’Europa e l’ottava al mondo, con un fatturato complessivo di oltre 1.160 miliardi di euro e una crescita dell’export del 2,6% nel 2024. Nei primi sei mesi dello stesso anno, l’Italia ha superato il Giappone per valore dell’export complessivo — 316 miliardi di euro —, piazzandosi al quarto posto mondiale dietro Stati Uniti, Cina e Germania.
Tuttavia, il “Bel Paese” rimane fortemente dipendente dall’estero per l’approvvigionamento di materie prime, in particolare di quelle strategiche, indispensabili al mantenimento dell’apparato produttivo e allo sviluppo delle tecnologie di nuova generazione.
Nel 2023 la Commissione Europea ha varato il Critical Raw Materials Act, un piano volto a ridurre la dipendenza dell’Unione dalle importazioni extra UE di materie prime critiche e strategiche (soprattutto dalla Cina) entro il 2030, individuandone 34 prioritarie.
Tra i parametri di riferimento fissati dal nuovo piano europeo vi sono: aumentare la propria capacità estrattiva fino a coprire almeno il 10% del consumo annuo di materie prime strategiche (MPS); aumentare la propria capacità di trasformazione fino a coprire almeno il 40% del consumo annuo di MPS; aumentare la propria capacità di riciclo fino a coprire almeno il 25% del consumo annuo di MPS; diversificare le importazioni di MPS dell’Unione in modo che nessun paese esterno all’UE copra più del 65% del consumo annuo dell’Unione per ogni MPS.
In base al Regolamento, l’Unione deve identificare e supportare progetti lungo tutta la catena del valore riconosciuti come strategici per il raggiungimento dei parametri fissati dal Regolamento. Questi progetti beneficeranno di procedure semplificate, di un accesso facilitato ai finanziamenti e dovranno necessariamente dimostrare di esser sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale.
Il Regolamento prevede, inoltre, lo sviluppo di un sistema di monitoraggio e analisi del rischio di approvvigionamento da parte della Commissione europea e degli Stati membri, anche al fine valutare l’istituzione di scorte strategiche.
L’Italia, però, non aggiorna la propria mappa mineraria dal 1973 e l’attività estrattiva oggi si limita quasi esclusivamente a rocce calcaree e marmo. Nonostante ciò, tra i 34 elementi indicati da Bruxelles, il nostro territorio potrebbe ospitarne circa la metà — anche se solo sedici risultano effettivamente presenti e non sempre in quantità tali da garantirci un’autonomia industriale.
Tra questi spicca il titanio, di cui nel sito di Piampaludo (SA) in Liguria è stato rinvenuto uno dei giacimenti più promettenti al mondo, con un potenziale estrattivo stimato in 9 milioni di tonnellate. Il titanio, presente sotto forma di rutilo (biossido di titanio), è essenziale per la produzione di pigmenti industriali e per le leghe ad alte prestazioni usate nei settori aerospaziale e biomedico.
Nel 2012 il valore del giacimento fu stimato in 80 miliardi di euro, ma una volta raffinato il valore dei prodotti finiti potrebbe risultare fino a dieci volte superiore, generando royalties per circa 500 milioni di euro l’anno per la Liguria e per l’Italia.
Il problema, tuttavia, è ambientale: l’area si trova all’interno del Parco Naturale del Beigua, Geoparco UNESCO dal 2005, uno dei luoghi più ricchi di biodiversità della regione. Qualsiasi estrazione violerebbe le normative ambientali e paesaggistiche, mettendo a rischio l’economia turistica locale, oggi sostenuta proprio dal parco. Inoltre, pur essendo il titanio in sé poco inquinante, nel sottosuolo del Beigua sono presenti anche metalli tossici (cobalto, cromo, zinco, nichel) e rocce contenenti amianto, fattori che aumentano la complessità e il rischio dell’operazione.
Un’altra risorsa chiave presente in Italia è il litio, indispensabile per la costruzione delle batterie, elemento chiave della transizione energetica, abbondante nei fluidi geotermici lungo quasi tutto l’Appennino — dal Piemonte all’Abruzzo, ma anche in Toscana, Lazio e Campania — con concentrazioni fino a 480 mg/l, tra le più elevate al mondo.
In questo caso però, l’estrazione del cosiddetto litio geotermico avrebbe un impatto ambientale ridotto, poiché il minerale è portato in superficie dai fluidi caldi già utilizzati per produrre energia elettrica e da essi può essere separato e stoccato con tecniche rapide e sostenibili.
Un approccio molto diverso da quello delle miniere di litio tradizionali, spesso causa di gravi danni ambientali e proteste popolari, come accaduto in Portogallo e Serbia, dove le comunità locali hanno denunciato contaminazioni delle falde acquifere e dei terreni agricoli.
Tuttavia, anche in caso di sfruttamento su larga scala, in Italia si potrebbero estrarre non più di 5.000 tonnellate di litio l’anno, quantità insufficiente a soddisfare il fabbisogno nazionale o europeo. Il vero obiettivo di tale sfruttamento a livello nazionale non sarebbe infatti l’autosufficienza totale, bensì la diversificazione delle fonti di approvvigionamento da parte dell’Italia.
La dipendenza dalle importazioni espone l’Italia e l’UE a forti rischi geopolitici. Le catene di fornitura globali possono interrompersi per guerre, crisi politiche, disastri naturali o decisioni unilaterali dei Paesi esportatori. A tal proposito, basti pensare che oggi la Cina controlla circa il 70% della produzione e oltre il 90% della raffinazione delle terre rare a livello globale, materiali cruciali per l’elettronica e le alte tecnologie, esercitando di fatto quasi un monopolio con un potenziale di ricatto e deterrenza altissimi.
A seguire, per citare altri esempi, il 63% del cobalto mondiale proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, e fino al 2022, inoltre, Russia e Ucraina fornivano rispettivamente il 17% del titanio importato dall’UE e il 50% del neon mondiale, quest’ultimo elemento indispensabile per la produzione dei microchip.
Proprio per ridurre vulnerabilità simili, il governo italiano ha approvato nel 2024 il Decreto n.84, che disciplina la mappatura e l’approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime critiche, prevedendo la riapertura di 76 miniere inattive, di cui, secondo l’ISPRA, 22 conterrebbero materie prime strategiche.
Tra le più promettenti figura la miniera di Silius, in Sardegna, che custodisce oltre 3 milioni di tonnellate di fluorite, minerale essenziale per l’industria dell’acciaio, dell’alluminio, del vetro e delle batterie. Dopo un iter burocratico durato undici anni, la società mineraria Gerrei, con il sostegno finanziario di Aruba S.p.A., ha ottenuto la concessione per la riapertura, con un investimento iniziale di 50 milioni di euro e l’assunzione di circa 100 addetti. Le estrazioni dovrebbero partire entro fine 2025, con una produzione stimata di 70.000 tonnellate di fluorite e 6.800 di galena l’anno.
Parallelamente, il Ministero dell’Economia ha sbloccato il Fondo nazionale per il Made in Italy, destinando un miliardo di euro al settore minerario: 700 milioni nel 2025 e 300 milioni nel 2026, per riattivare miniere e costruire una filiera nazionale di lavorazione e riciclo.
L’autosufficienza strategica passa infatti anche dal riciclo dei materiali.
L’Italia, ad esempio, è già leader mondiale nel riciclo dell’alluminio e vanta ottime performance su rame, zinco e piombo. Più complesso è invece il recupero dei metalli delle batterie — litio, cobalto, nickel, manganese — per i quali stanno emergendo progetti innovativi. Enel X, in collaborazione con MIDAC, sta realizzando il primo grande impianto nazionale di riciclo del litio, capace di trattare 10.000 tonnellate di batterie l’anno, finanziato dal programma europeo IPCEI.
La società Haiki COBAT, invece, ha sviluppato in Abruzzo un impianto basato su un processo idrometallurgico brevettato, in grado di recuperare litio, manganese e cobalto da batterie esauste e rifiuti elettronici (RAEE).
Restano però difficilmente riciclabili le terre rare e materiali come germanio, indio e gallio, fondamentali per l’elettronica: le tecnologie di recupero esistono, ma non hanno ancora una sostenibilità industriale nel nostro Paese.
Il futuro industriale dell’Italia dipenderà dalla capacità di trovare un equilibrio tra la tutela dell’ambiente e la necessità di garantire la sicurezza delle proprie catene produttive.
Per questo l’Italia non potrà che agire lungo tre direttrici fondamentali:
La prima riguarda la riattivazione controllata delle attività estrattive, con una riattivazione delle miniere non in chiave predatoria, ma tecnologicamente avanzata e ambientalmente sostenibile, coniugando sviluppo locale e salvaguardia del territorio.
La seconda passa per la diversificazione degli approvvigionamenti, costruendo partenariati con Paesi alleati e politicamente stabili, così da ridurre l’esposizione verso aree soggette a rischio geopolitico.
La terza, forse la più importante, è l’investimento strutturale nel riciclo e nell’innovazione industriale, per chiudere i cicli produttivi e trasformare gli scarti in risorse, in linea con i principi dell’economia circolare. Questa strategia richiede una governance solida, una chiara visione industriale e un quadro regolatorio che favorisca la collaborazione tra pubblico e privato. Solo così sarà possibile trasformare la sostenibilità da vincolo a leva competitiva, capace di generare valore economico, occupazione qualificata e coesione territoriale.
Un equilibrio complesso, ma necessario, se l’Italia vuole preservare la propria identità e restare protagonista in un mondo sempre più dominato dalla contesa per le risorse delle tecnologie del futuro.
Articolo di Francesco Iasevoli, Geopolitcal Studies & Advocacy Analyst